Per molti atleti amatoriali il periodo di transizione è la fase meno utile della stagione.
Viene infatti erroneamente percepita come un'inutile perdita di tempo.
È invece una fase importante, di collegamento tra la conclusione del periodo agonistico ed il nuovo periodo di costruzione; utile a smaltire le scorie di una lunga annata, ma soprattutto a ricaricare le batterie mentali, spesso profondamente usurate.

Ho volutamente citato l'atleta amatoriale in quanto il professionista ama questo periodo (ma anche dilettanti e categorie giovanili), fondamentale per staccare dalla routine giornaliera, poichè provato dal raggiungimento dei picchi di: volume, intensità, frequenza e densità; che necessitano di un "hard reset" prolungato, dopo mesi in giro per il mondo.
Per tali categorie non è raro uno stacco di 4-6 settimane dallo sport specifico praticato (nell'articolo il focus è prevalentemente puntato su ciclisti e runner); ma spesso, soprattutto negli ultimi anni, la tendenza è quella di ridurre questa inattività specifica fino a 2-3 settimane.
L'amatore non raggiungendo questa mole mostruosa di parametri allenanti combinati tra loro, necessita quasi sempre di pochi giorni o settimane di stacco a livello organico-fisiologico-strutturale, mentre la discriminante è prettamente mentale.

"Quanto sono arrivato stanco, esausto, demotivato al finale di stagione?"
Se la risposta è: molto... presumibilmente il periodo di stacco dovrà durare maggiormente e la transizione stessa sarà meno specifica e prevalentemente di carattere generale, al fine di ritrovare innanzitutto la motivazione, quindi la voglia di allenarsi nuovamente e poi, in seconda battuta, diventare mirata.
Diversamente la transizione potrà diventare da subito attiva, dopo comunque qualche giorno di riposo.

- QUANTO RIPOSARE?
Lo spauracchio del disallenamento.
Detto che queste valutazioni vanno sempre fatte tra coach e atleta, è importante comprendere come esista il rischio concreto, per i non professionisti, di incorrere nel disallenamento, con conseguente perdita di gran parte degli adattamenti precedentemente costruiti.
L'allenamento infatti è una successione di stimoli ai quali fa seguito un adattamento che, se positivo, concorre al miglioramento della performance.
Nel momento in cui questi stimoli vengono a mancare interviene il meccanismo della reversibilità, con conseguente perdita degli adattamenti creati, che però non avviene ovviamente con effetto immediato, ma su periodi lunghi o medio lunghi di stop.
Conosciamo, dalla letteratura, tre tipologie principali di disallenamento, osservate e studiate in seguito a periodi di inattività forzata in atleti infortunati:
> cardiorespiratorio;
> muscolare;
> metabolico.

Prima di approfondire tali aspetti, entrando nel dettaglio, analizziamo insieme ciò che accade quando non solo non ci si allena, ma non si svolgono le normali funzioni che la struttura muscolo-scheletrica è solita svolgere.
Proprio come per gli studi da cui sono ricavati i valori e dati che leggerai poi qui sotto, in seguito, pensiamo di osservare ciò che accade ad un arto a cui è stato applicato un gesso immobilizzatore: nel giro di qualche giorno il muscolo inattivo subirà un'atrofia sempre maggiore, con parallela perdita di forza e potenza.
[Già, forza e potenza muscolare, guarda caso due tra i fattori limitanti la prestazione sportiva].

Disallenamento cardiorespiratorio.
Perdita di VO2 Max (massimo consumo d'ossigeno), nell'ordine del 4-14% sul breve termine. (Mujika, Padilla).
Tale riduzione diventa fattore limitante negli sport di endurance ed è data dalla riduzione del volume di flusso sanguigno (perdita indicata tra il 5 e il 12%), limitando fortemente la capacità di riempimento ventricolare nel corso di uno sforzo fisico, comportando inoltre una riduzione della gittata sistolica, con relativo incremento della frequenza cardiaca.
Secondo la più recente meta-analisi di Zheng, Pan, Jiang e Shen "Effects of Short- and Long-Term Detraining on Maximal Oxygen Uptake in Athletes: A Systematic Review and Meta-Analysis" si confermano gli effetti di detraining maggiori nel VO2 max dopo la sospensione degli allenamenti a lungo termine, rispetto a quelli a breve termine.
Confermando inoltre come non avvengano sostanziali differenze di VO2 Max tra la sospensione dell'allenamento per 30-90 giorni e oltre i 90 giorni.
Unendo lo studio cinese e quello spagnolo si evidenzia una riduzione del 4-14% sul breve periodo e del 6-20% sul lungo, a dimostrazione di quanto sopra citato.

Disallenamento muscolare.
Avvengono alterazioni della struttura, tra cui: diminuzione dell'area trasversale del muscolo (prevalentemente però in atleti di forza e salto) e della densità capillare del muscolo.



Disallenamento metabolico.
Maggior concentrazione di lattato su prove da sforzo sub-massimali. A riguardo esistono alcuni studi, non recentissimi a dire il vero, che hanno coinvolto nuotatori universitari, evidenziando le alterazioni della concentrazione di lattato (mmol/L) ad andatura prestabilita (90% del personal best stagionale).
Calcolati dopo 5 mesi di allenamento e riscontrati poi dopo 1, 2 e 4 settimane di detraining i valori sono variati anche di +5,5 mmol/L.
Evidenziando quindi come, variazioni della concentrazione di lattato, non siano evidenti dopo pochi giorni di riposo, ma divengano assolutamente considerevoli dopo un periodo prolungato di inattività.

Un altro aspetto da considerare, che diventa fattore limitante è la crescita del tessuto adiposo, con conseguente variazione negativa della composizione corporea, anche quale conseguenza del ridotto fabbisogno calorico giornaliero.
È lo studio del “Journal of Applied Physiology” ad affermarlo, asserendo inoltre che, una pausa di due settimane, riduca nettamente le capacità cardiovascolari, la sensibilità dell’insulina e sì, anche la massa muscolare.
Sembra quindi che la prestazione di forza venga mantenuta fino a 4 settimane di inattività, ma la forza eccentrica e la potenza sport-specifica di atleti molto allenati, possano diminuire significativamente. ("Muscular characteristics of detraining in humans". Mujika, Padilla 2001).
La capacità di resistenza invece subisce alterazioni già dopo 2 settimane di inattività, sebbene non sia ancora chiaro se il decremento sia riconducibile ad alterazioni in sede muscolare o cardiovascolare.
Sicuramente a contribuire alla riduzione della resistenza muscolare sono: la diminuzione dell'attività enzimatica ossidativa (del 13-24% dopo 2-3 settimane di disallenamento), delle riserve di glicogeno muscolare e dell'afflusso di sangue ai muscoli.
Va altresì specificato che, maggiore sia il grado di allenamento dell'atleta, minori siano gli effetti del detraining sul breve-medio periodo. Quasi come se l'organismo sia munito di memoria muscolare. Beh, forse anche "senza il quasi"...

Sei preoccupato? Non devi esserlo, ma sicuramente essere informato su ciò che accade dopo periodi di riposo prolungato, ti sarà utile a comprendere come la ripresa successiva possa essere più lunga del preventivato.

LA TRANSIZIONE INTELLIGENTE!
Un tempo si parlava di partenze intelligenti (oddio, se ne parla ancora?) per sviare il classico esodo automobilistico, ma con il traffico attuale oramai anche centrare una partenza davvero furba è diventato quasi impossibile.
Nel mondo della scienza applicata allo sport spesso ci si trova in una situazione analoga, con il rischio di:
> non riposare a sufficienza;
> di riposare troppo a lungo.

Quindi 7-10 gg. di riposo (per un amatore, non per un "pro") possono essere ottimali al fine di non perdere gran parte degli effetti / adattamenti positivi e, al tempo stesso, recuperare a livello fisico sì, ma soprattutto mentale, energie preziose.
Non necessariamente dovranno essere giorni di inattività assoluta ma, dopo qualche giorno di riposo, si potranno iniziare ad inserire attività alternative non agli antipodi con lo sport principale praticato.



Il ciclista potrà inserire: nuoto (ah sì, giusto, deve saper nuotare), camminata in salita, approccio graduale alla corsa, scialpinismo nel periodo invernale, ad esempio.
Nel caso di chi è solito pedalare la transizione giunge solitamente da metà-fine Ottobre in avanti.



Il runner è un caso più complesso, perchè spesso non è solito svolgere attività alternative nel periodo di transizione *, ma in diversi casi, soprattutto nel mondo del trail e dell'ultra, abbina già nuoto o bici, spesso come attività di recupero attivo. *[Che poi, ho visto raramente runner staccare...quasi peggio de...]



Il triatleta colui che, mi ci metto anche io, variando già moltissimo nel corso della stagione spesso non sente la necessità di uno stacco, in quanto non demotivato.
Un errore? Nì, dipende ovviamente da soggetto a soggetto e va valutato di caso in caso, ma se vengono rispettati i principi essenziali della transizione, why not?
> riduzione di volume, intensità, densità;
> approccio meno invasivo (maggiore libertà e minor specificità);
> basso stress psico-fisico.


Ho dimenticato qualcosa? La palestra forse?



Credo che questo sia uno dei dibattiti maggiormente in voga tra sportscientist (in dialetto "preparatori atletici") e che, come sempre, il rischio di divedersi in due fazioni opposte, tra inutili fanatismi, sia concreto.
La fase di lavoro a secco, tramite una giusta progressione dal facile al difficile, dal corpo libero all'utilizzo di sovraccarichi, non deve essere vista come un qualcosa da farsi obbligatoriamente nè come una perdita di tempo da dedicare all'attività principale. Deve essere programmata in maniera tale da ottimizzare il lavoro sport-specifico, migliorando i meccanisimi di attivazione neuro-sensoriale, ad esempio, oltre che l'efficienza in moltissime discipline sportive.
Lavori mirati in questa direzione sono funzionali al miglioramento dell'economia di corsa, ad esempio, o dell'efficienza di pedalata. Non lo dico certamente io, che nel triathlon ritengo importante (ma non obbligatoria per chi non avesse un numero sufficiente di ore settimanali a disposizione), ma moltissimi studi che vi invito a leggere:
- tra cui quelli legati all'allenamento di forza massima (di Unde e collaboratori), della forza esplosiva (Yamamoto e collaboratori) o quelli, davvero interessanti, di Rønnestad.


Detto questo, il lavoro in palestra non è assolutamente la panacea di tutti i mali nè la risoluzione di ogni problema, ma è evidente come, nell'endurance, abbia un ruolo sempre più importante, anche in atleti di vertice. Basti pensare agli atleti di XC mountainbike o ai triatleti stessi, osservando quante ore passano in palestra.
Il tutto però considerando sempre e comunque che, l'attività di forza, debba essere specifica e svolta nel corso dell'attività sportiva principale.
Come sempre è una questione di priorità, di tempo a disposizione, di caratteristiche del singolo atleta e di motivazione nell'impegnarsi "a sollevare ghisa".
Perchè, in fondo, rimane uno sport di resistenza...ma non di sola resistenza!
Ciò che mi preme però, non è parlare di palestra nell'endurance, in quanto ci sarà sicuramente modo di farlo in seguito, ma di evidenziare una problematica dimostrata scientificamente soprattutto negli atleti professionisti, per cui l'importanza di una transizione in cui vengano inserite attività stimolanti, ad alto impatto, sia fondamentale non per la performance sportiva, ma per la vita quotidiana futura.
Di cosa sto parlando?
Della densità ossea: una delle problematiche principali per la salute dei ciclisti, per cui la corsa o attività con sovraccarichi diventano fondamentali per combatterne l'insorgenza.
Di questo ne avevo già parlato qui, nell'articolo "Anche i ciclisti corrono", nel caso in cui volessi approfondire l'argomento.



In conclusione.
Al giorno d'oggi abbiamo un tale numero di informazioni e dati per cui la scelta finale su come programmare una stagione e, quindi, il relativo periodo di transizione, debba essere studiata a tavolino e condivisa tra coach e atleta, ma soprattutto debba tenere conto di tutte le varabili in gioco. Dei pro e dei contro di una strada rispetto ad un'altra.
Tenendo sempre presente il concetto di fondo per cui, la performance è importante, ma la salute ed il benessere psico-fisico lo sono ancor di più e sono ciò che consente di essere realmente performanti nel medio-lungo periodo.


Bibliografia:
"Effects of Short- and Long-Term Detraining on Maximal Oxygen Uptake in Athletes: A Systematic Review and Meta-Analysis" (Zheng, Pan, Jiang, Shen)
"Detraining: Loss of Training-Induced Physiological and Performance Adaptations" (Mujika, Padilla)
"Muscular characteristics of detraining in humans" (Mujika, Padilla)
"Strength training improves performance and pedaling characteristics in elite cyclists" (Rønnestad, Hansen, Hollan, Ellefsen)